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Pettoranello si estende sopra una montagnetta, tra i monti Cesone, Montelucchero, Colleinambre, Collevecchi e Piana. Vicino alla piazza c’è una chiesa che, per noi di Pettoranello, è la più bella di ogni altra. La gente è rimasta poca, di più sono gli emigranti e a loro mando un bacio e un fiore della loro terra che, anche se lontani, amano ancora.

La struttura del paese è rimasta invariata ma la vita della gente era diversa.
Quando era temo della mietitura, i vecchi preparavano la “vantera” (grembiule di pelle o stoffa resistente protettivo della parte anteriore del corpo), “le cannelle” (piccole canne infilate sulle dita per proteggerle dai colpi della falce), la falce e la ciotola. Si partiva presto per i campi, il grano fatto non poteva aspettare, tanto che si rimandava anche il matrimonio, e perciò si diceva che il mese di giugno non ebbe il tempo di sposarsi!
Nei campi, i più capaci portavano avanti “l’anta” (la parte di terra suddivisa appositamente per dare celerità al lavoro) e si ubriacavano di vino, di canti e di sole. Le donne li raggiungevano più tardi portando poche cose: pane, vino, cipolle e affettato di prosciutto, chi lo teneva.
Il lavoro continuava mentre gli uomini affondavano le mani callose nelle spighe pennacchiose; spesso i loro sguardi si giravano dietro a contemplare “r’manuocch” (covoni) che popolavano le stoppie pungenti. Verso sera si chiamavano “r’ quatrari” (bambini e ragazzi), distogliendoli dal gioco della “mazza e pivizi”, per la ristretta dei covoni, mentre il più anziano faceva le “reglie” (sistemazioni dei covoni in file sovrapposte per proteggere le spighe dalla pioggia e dalla grandine) e ci poneva sopra una croce fatta di spighe di grano, ringraziando il buon Dio per il raccolto abbondante.
Le vecchie rimanevano nelle case a custodire gli animali e mocciosi che per farli dormire li cullavano cantando loro delle cantilene come: pass e pass lai cacciun, ru lup z’ lè magnata la putrella, z’ lè maganta e nun z’ lè fnuta, ru citr mia zè durmut!
Le vecchie vegliavano il sonno dei bimbi, ma spesso dondolavano anch’esse sugli scanni e con sobbalzi scostavano le mosche che volevano succhiare le gocce di latte cadute sul “cacciamanieglio” (camicino dei neonati senza maniche) e sui faccini appiccicosi dei piccoli.
L’acqua a Pettoranello non c’era e perciò era una processione continua di persone che si recavano, con gli asini carichi di barili, al “Fossato”, alla “Fonte Vecchia”, alla “Fonte del Papa” o alla “Fonte Salomone” per portare un po’ d’acqua nelle case, ma a volte era veramente poca perché i barili colavano. E se i barili erano soddisfatte le “guaglione” (ragazze) che approfittavano di ritornare alle fonti per incontrare i loro innamorati. I fidanzamenti erano fatti di sguardi nascosti, di occhiate furtive, di segnali di intesa. Mutandoni e gonnellini dovevano coprire le gambe delle donne e un fazzoletto doveva separare finanche il contatto delle mani di due fidanzatini che ballavano. Tutto era bello e spontaneo: il lavoro, la preghiera e l’amore.
Un prete che spesso andava a fare visita a mia nonna Mariangela, un giorno trovò la cucina ingombra di sacchi di “mazzafurri” (pannocchie) e di patate e accanto al focolare un “catturo” (paiolo) pieno di latte e una pignatta che barcollava. Mia nonna quando lo vide si scusò dicendo: - Signò accprè, iec madama sta tutt mpcciat, nun so fatt a tiemp a rzlà! Il prete rispose: - Marià, la casa è megl quand sta mpcciata, ca quand sta pulta, sta pult pur ru stommac!