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Fino a qualche tempo fa, il lavoro dei campi veniva svolto con la sola forza fisica dell’uomo, l’agricoltura, quindi, non era ancora meccanizzata. La mietitura del grano, in particolare, richiedeva grande resistenza, capacità e maestria, conoscenza tecnica nel maneggiare la falce, che poteva essere di due tipi: a taglio, se la superficie della lama ricurva era liscia ed affilata, a sega, se sulla lama erano presenti piccoli denti, proprio come quelli di una sega. Le mani esperti dei mietitori si destreggiavano abilmente con entrambi i tipi di falce, non avevano preferenze, poiché erano solo le loro capacità a renderle validi strumenti di lavoro.
Al tempo della mietitura, che al mio paese coincideva sempre con l’arrivo del mese di luglio, le campagne erano sempre popolate da rumorosi gruppi di mietitori, che con il loro canti rallegravano l’aria tutto intorno e con i loro racconti alleggerivano la fatica del lavoro che si doveva fare. Le messi biondeggianti ed ondulate, che si aprivano davanti agli occhi degli uomini aspettavano pazienti di essere tagliate. Così via, via le mani ruvide e callose dei mietitori, con la pelle riarsa dal sole e inumidite dalla nebbia depositata sulle spighe, affondavano nelle messi e le falci che tagliavano gli steli, ormai secchi, provocano un lieve e piacevole scricchiolio di paglia arida. A mano, a mano che il lavoro procedeva, i mietitori formavano piccoli fasci di spighe, tenute insieme da un legaccio fatto dalle spighe stesse e quando i fascetti (detti “vranghe”) erano tanti, venivano ancora uniti tra loro in modo da formare i covoni (detti “manocchi”). Così le stoppie, a poco, a poco si coprivano di covoni e i mietitori, che furtivamente giravano lo sguardo dietro se stessi, spaziando con la coda dell’occhio erano felici e gioiosi del lavoro che procedeva con tenacia.
 
Le bionde spighe, che attimi prima si muovevano alla leggera brezza del venticello, cadevano sotto i colpi impietosi delle falci scintillanti e luccicanti ai raggi cocenti del sole. Ma, quasi a dare l’impressione che le messi fossero ancora lì, vive ed eleganti, i mietitori disponevano i covoni con le punte rivolte verso il cielo, creando, così, uno spettacolo triste ed attraente allo stesso tempo. Tuttavia, nonostante i mietitori mettessero molta attenzione a recuperare ogni spiga, a non lasciarne nessuna per le stoppie, inevitabilmente capitava che, molte rimanessero nei campi. Però, nulla doveva andare perduto; quelle spighe contenevano molti chicchi di grano ed erano costate fatica e sudore e, per la gente parsimoniosa di allora, non doveva accadere, a loro dire, un simile spreco. Perciò, forse da questa considerazione e anche dalla povertà di alcune famiglie, nacque la necessità  di recuperare le spighe che cadevano durante il taglio. Pertanto, si cominciarono a vedere girare per i campi mietuti le così dette “spicarole” cioè le spigolatrici. Di solito erano, queste, ragazze piuttosto giovani che passando di campo, in campo con lo sguardo sempre rivolto verso il basso, raccoglievano le spighe ancora munite di stelo paglioso, formando tanti piccoli mazzi; solo verso sera tornavano alle loro casupole, ringraziando il Buon Dio di avere esaudito la speranza di una buona raccolta. I mazzi di spighe, portati a casa, venivano battuti con bastoncelli e i chicchi ricavati servivano a dare buona farina, oppure venivano venduti per comprare stoffe e confezionare vestiti da indossare alle feste per fare bella mostra di se. È da precisare, però, che non in tutti i campi era permesso raccogliere le spighe, poiché alcuni proprietari non permettevano che questo accadesse. Il segnale di divieto era costituito da un fascetto di erbe secche che veniva appeso in bella vista, ai rami di un albero. Perciò, le spigolatrici, che ben conoscevano questa usanza, prima di introdursi in un campo, stavano attente al segnale e dovendo procedere oltre, il loro cuore certamente diventava triste e poco disposto a buoni sentimenti verso quei “signori padroni”. Un altro segnale, che pure era in uso per vietare il pascolo, consisteva nel fare dei piccoli cumuli di terra rimossa di fresco nel campo oggetto di proibizione. La scrivente, ripensando ai tempi della sua infanzia, descritti prima, rivive con sentimento profondo questo ricordo e spera di fare una utile informazione per le persone che da quella “cultura” sono ormai lontane.